Il blog dell’Istituto Svizzero permette ai Fellow e ai Senior Fellow di entrare in contatto con il pubblico durante il loro soggiorno a Roma, Milano o Palermo, offrendo una prospettiva unica sul progresso della loro pratica e ricerca. Attraverso una serie di articoli pubblicati regolarmente, si ha l’opportunità di seguire da vicino la ricerca e le riflessioni dei residenti. Per leggere i blog post delle precedenti edizioni cliccare qui.
Il testo che segue è apparso nel contesto della mostra Poetry for Revolutions presso l’Istituto Svizzero (20.10.2023- 18.02.2024)
Ci è stato insegnato che interrompere chi parla è segno di maleducazione. Eppure, talvolta, interrompere sembra essere l’unico modo, soprattutto quando si ha a che fare con qualcuno che parla ininterrottamente e che, nel suo parlare, si arroga il diritto di definire, descrivere, categorizzare e determinare tutto il resto. Insomma, qualcuno che non lascia a chi è in ascolto la possibilità di ribattere, né di dirsi, pensarsi, significarsi e raccontarsi da sé, riducendo l’uditorio a un beneducato silenzio. Così mi figuro la condizione esistenziale in cui gran parte delle donne si trovava invischiata prima della rivoluzione simbolica che le vide protagoniste, insieme ad altri corpi dissidenti fino ad allora tacitati, nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (de Lauretis, 1990). Una rivoluzione innescata dall’iperbolica constatazione di esser state a guardare per 4000 anni e di aver visto, cioè, di averne abbastanza: constatazione da cui il Manifesto di Rivolta Femminile del 1970, tra gli altri, sembrerebbe prorompere (Rivolta Femminile 1970).
Proprio il manifesto fu una delle forme di rottura che vennero mobilitate in quegli anni per uscire dal silenzio, determinando un corto circuito nel regime patriarcale della dicibilità. All’interno di quest’ultimo, tali corpi sedevano composti, ma scomodamente, in quanto oggetti del discorso altrui o come portatori di esperienze indicibili (Muraro 1981; Dominijanni 2017). Il manifesto femminista, in particolare, diede voce a parte di quell’esperienza che fino ad allora se n’era stata lì muta nell’imitazione di modelli maschili o nell’aderenza a ruoli gregari ascritti, zittita dagli imperativi del conformismo sociale (Dominijanni 2017). Agevolò infatti la presa di parola che seguì e a sua volta indusse la presa di coscienza, determinato a contagiare chi vi entrava in contatto, provocandone la metamorfosi – che è innanzitutto processo di soggettivazione e quindi cambiamento sociale.
Nel caso dei manifesti femministi, non si tratta solo di prendere la parola, ma di alzare la voce, reclamando e asserendo con forza un riposizionamento radicale da oggetto del discorso altrui a soggetto del proprio. Si tratta di testi irriverenti, scomposti, maleducati appunto, che segnano l’emergere di una soggettività inedita e imprevista, la quale di colpo fa irruzione nella storia e comincia a significarsi autonomamente, interrompendo il monologo patriarcale (Rivolta Femminile 1970). Vale a dire, testi che accompagnano il manifestarsi di tale soggettività – come la parola “manifesto” stessa suggerisce – e producono una rottura di natura epistemologica e ideologica nel continuum del discorso della modernità occidentale. È quella “utopica manifestatività” immaginata da Anna Oberto nel Manifesto della Nuova Scrittura al Femminile (1975); o il verificarsi della “fenomenologia femminile” auspicata da Lonzi e Accardi ancor prima di mettersi a scrivere insieme a Banotti il primo Manifesto di Rivolta Femminile (Accardi & Lonzi 1966). Questo fenomeno straordinario, che è l’improvviso rivelarsi di un’assenza, il ritorno di un rimosso, un negativo che prende corpo, è tutto il contrario della fenomenologia classica, metonimicamente incarnata nella figura di Hegel su cui siamo invitate a sputare – per citare un altro importante testo-manifesto pubblicato da Lonzi negli stessi anni (Lonzi 1970).
E se la parola “manifestarsi” racchiude segretamente in sé la parola “festa,” evocando l’euforia e l’ebrezza che possono scaturire da un processo di soggettivazione in corso – penso, qui, alla famosa concezione di Lonzi del femminismo come la sua “festa” (Lonzi 1978a, 44) –, nella forma-manifesto il sentimento prevalente sembra essere un altro. È un sentimento di rabbia, dapprima muta e poi sempre più chiassosa, fragorosa, assordante. È la rabbia delle donne che insorgono, che sono nemesi, che sono rivolta, e che, tutte insieme o a una a una, si preparano a forzare il blocco (Lonzi 1978b, 42). Il loro parlare è mordace, abrasivo, incendiario. Interrompe il monologo, come dicevamo, ma non cerca dialogo, o almeno non all’interno degli schemi linguistici, comportamentali e relazionali a disposizione. Da cui il famoso “comunichiamo solo con donne,” scritto a lettere maiuscole come fosse gridato, su cui si chiude il già citato manifesto di Rivolta Femminile. Con questo grido è annunciata la scelta del separatismo – scelta che parrebbe essere condivisa dalle Nemesiache, almeno stando all’incipit del loro manifesto del 1970 (“la lotta delle donne deve essere fatta dalle donne e gli uomini non devono essere informati”), e forse un po’ anche da Anna Oberto, che nel suo manifesto parla di “liberazione dal linguaggio al maschile come liberazione femminile” (1975).
Ancora una volta, una parola di rottura, di rifiuto, che si vuole autonoma su tutti i livelli, a partire dal linguaggio stesso, per poi arrivare a politica organizzata e cultura istituzionalizzata – da cui la famosa “deculturazione” predicata da Lonzi. La ricerca di autonomia espressiva quanto politica – che costituisce il fondamento dell’impresa teorico-politica di Rivolta Femminile, così come di quella artistica delle Nemesiache o di Anna Oberto – è un tratto distintivo del processo di soggettivazione in corso. Quest’ultimo comporta liberazione da categorie prestabilite, disidentificazione da ruoli ascritti, presa di distanze rispetto a mandati comportamentali imposti (Boccia 2014; Zapperi 2017, 2020).
Per le più radicali, ciò significa rifiuto dell’identità stessa, nonché di qualsivoglia ideologia, femminismo incluso. Questo scarto inaspettato viene a cristallizzarsi in un altro significativo manifesto: Io dico io, scritto da Carla Lonzi nel 1977 e pubblicato nel 1978 da Rivolta Femminile, che lo rivendica come proprio secondo manifesto. Vi si legge: “quello che ho da dire lo dico da sola” (Lonzi 1978b, 8). Il soggetto parlante, da quel collettivo “noi” che caratterizza solitamente la retorica del manifesto, diventa “io”, segnalando un riposizionamento radicale. Si tratta del risultato di un doloroso ma intransigente processo di disidentificazione, appunto: un percorso solitario e incerto su strade non battute. In quanto tale, questo processo comporta dei rischi non trascurabili, quali la solitudine, l’isolamento, l’illeggibilità, la rimozione, la pazzia (Boccia 2014; Zapperi 2017). Ma anche delle occasioni d’oro, prima tra tutte quella di aprire il campo delle possibilità all’emergere di un soggetto politico nuovo e in continuo divenire.
La distanza storica ci consente di leggere questo ripensamento radicale come un sintomo del fatto che la dicitura “donne” che costella questi manifesti corrisponde a una categoria politica in fieri, che raccoglie in sé soggettività dissidenti in lotta per divincolarsi da un’identità ascritta – che poi è il significato della differenza sessuale secondo Lonzi. Ma soprattutto, tale repentino cambio di rotta mostra come le persone dietro ai manifesti che leggiamo possano avere ripensamenti, cambiare meravigliosamente idea.
Quest’ultima considerazione è da tener presente quando si leggono i manifesti in questione, che hanno valore di documenti storici, ma che, per la loro stessa natura, tendono a farcelo dimenticare. Il manifesto, infatti, è un testo scritto in un impeto di rabbia o slancio di indignazione, quando non se ne può davvero più. Ed è scritto per essere affisso, urlato, lanciato da una balconata o dal finestrino di un’automobile in corsa, oppure accartocciato intorno a un sanpietrino e scaraventato contro una vetrina. Deve infatti circolare rapidamente, di mano in mano, di bocca in bocca, mirando ad accendere, appassionare, mobilitare e istigare un cambiamento sociopolitico radicale e immediato. Le sue stesse modalità di diffusione non prevedono storicizzazione, né curatela: il manifesto non si pronostica materiale di studio per i posteri, volendosi anzi cannibalizzato, annichilito e rimpiazzato da nuovi manifesti, da nuovi pensieri altrettanto incendiari.
Per questo motivo, sebbene suonino risoluti e massimalisti, mi pare che la possibilità del ripensamento sia intrinseca al manifesto. Quando leggo i manifesti femministi degli anni Settanta, cerco sempre di tenere a mente che sono stati scritti da persone che avevano all’incirca la mia età e che, senza appigli né riferimenti fissi, erano alla ricerca di un linguaggio autonomo per esprimersi a partire dal loro punto di vista, parziale e fragile. Tale fragilità spesso si perde dietro al tono assertivo e autoritario che è tipico del manifesto – e che per alcune donne già rappresentava una conquista in sé, essendo stato loro storicamente negato in quanto antitetico all’ideale della femminilità. Persino le espressioni che oggi risultano problematiche, quanto meno dall’odierna prospettiva di un femminismo intersezionale cui io stessa mi sento di aderire, devono essere intese come il frutto degli sforzi e della lotta di chi era alla ricerca delle parole per esprimere un’esperienza, una soggettività e una sessualità rimosse e pertanto indicibili – una lotta dai risultati alterni, talvolta paradossali o contraddittori. La verità è che non esistevano verità: solo donne che pensavano e provavano insieme – quest’ultimo verbo da leggersi nella doppia accezione di esperire un sentimento, come la rabbia o l’euforia, e di tentare. Ed è proprio quello che facevano: procedevano a tentoni, come chi avanza nell’oscurità, e cioè come facciamo un po’ anche noi oggi. Perché così è la lotta: si procede per tentativi, con fiducia.
La Grande-Biblioteca-Bagnata-
Viviamo in una Grande-Biblioteca-Bagnata dove ogni Libro è una Casa. La nostra Città è questa Grande-Biblioteca-Lubrificata e noi abitiamo dentro a dei Libri-Casa. Qui possiamo scegliere la nostra genealogia. Qui nessuno porterà sulla sua schiena incrinata, sulle sue spalle ammaccate, sulla sua testa gonfia o sui suoi glutei strabordanti dei libriche non ha mai pensato di conservare. Nella Grande-Biblioteca-Umida possiamo scrivere le nostre lascito. Siamo noi a decidere cosa metterci dentro. Qui inventiamo il nostro passato, il nostro presente e anche il nostro futuro. Scegliamo cosa portarci dentro e come trasformarlo.
Nella Grande-Biblioteca-Bagnata-Umida, alcunə hanno una chioma immensa in cui ci si può avvolgere e segretamente crogiolare. Altrə, vestitə di Forbici che non si tolgono mai, nemmeno per fare la doccia e certamente non per scopare, riescono a rattoppare tutto.
Alcunə hanno delle Scarpone con le quali si divertono a schiacciare delicatamente, lentamente, languidamente, ogni cosa. Gli oggetti, mentre si frantumano sotto le loro Scarpone, emettono suoni profondi e intensi. Così i peli cominciano a rizzarsi sulle braccia, i peli cominciano a rizzarsi intorno alla bocca, i peli cominciano a rizzarsi intorno all’inguine. I peli non smettono di rizzarsi e non smettono di rizzarsi a lungo. Alcunə di loro sono come vecchie ciminiere che sputano fumo tutto il giorno dalle loro bocche sdentate e dai buchi malati dei loro nasi. Stanno sui tetti dei libri illuminati, e guardano i giorni e le pagine susseguirsi attraverso nebbie spesse e ovattate.
Attraverso nebbie spesse e ovattate, stanno sui tetti dei libri illuminati, e guardano i giorni e le pagine susseguirsi
Nella Grande-Biblioteca-Bagnata-Umida-Lubrificata nessunə è sedentariə. Tuttə amano traslocare. Sollevare pile di scatole a mani nude. Maneggiarle a distanza e in punta di piedi. Non dimenticare di scendere e risalire. Salire e scendere. Sudare lentamente mentre lo si fa. Andare sempre più in profondità. I Libri-Casa sono in continuo movimento, allo stesso ritmo del nostro cuore. A volte molto velocemente. Velocemente. Velocemente. Velocemente. E a volte molto lentamente. Lentamente. Lentamente. Lentamente. Lentamente. In ogni momento propongono sensualmente una nuova cartografia che non vale la pena cercare di immortalare o di spiegare.
Quando si trasloca, si acquisiscono nuove caratteristiche e a volte se ne perdono di vecchie. Non lo si può mai sapere in anticipo. E anche questo è eccitante. Eccitante. Eccitante. Eccitante. La cosa buona è che l’affitto dei Libri-Casa non cambia mai. Mai. Mai. Mai. Non ci sono aumenti di prezzo, né gente cattiva che fa oscillare gli affitti. Dicono che a volte toccava pagare per viverci.
HAHAHAHAHAHAHHAHA
HAHAHAHAHA
HAHHAHAHAHAHAHHAHAHAHAHAHAHHAH
HA
Ma per nostra fortuna, vivere nella Grande-Biblioteca-Bagnata-Umida-Lubrificata e nelle Case-Libro è sempre stato gratis. Gratis. Gratis. Gratis.
Non è mai notte nella Grande-Biblioteca-Bagnata-Umida-Lubrificata. Notte. Notte. Notte.E a volte non è mai giorno. Giorno. Giorno. Dipende dalla stagione all’interno del Grosso-Grande-Grasso-Libro-Bagnaticcio che leggiamo tuttə insieme prima di assopirci. Primache le palpebre cadano dai nostri occhi. Prima che la lingua ci cada dalla bocca. Primache il cuore ci cada dal ventre. Come un rituale di protezione. Per fare sogni che ciriposino davvero. Sogni che suonano come una carezza sulle pareti morbide del nostrocervello. Sogni come baci prolungati su tutte le nostre parti umide. Sogni contro cuistrofinarsi. Sogni in cui diventare eternə e rimanere tutta la vita a crogiolarsi. Sogni in cui immaginare i mondi che vogliamo ri-de-comporre con i nostri corpi.
Ogni Libro-Casa ha un titolo che porta con orgoglio e gioia. Anche quando quel titolo è sgradevole o ci fa bagnare il letto per la paura. Questo titolo ci dà qualche indicazione su ciò che potrebbe cambiare in noi se ci capitasse di viverci dentro. Se le sue parole ci avvolgessero e si stampassero un poco in noi.
Abbiamo cominciato con l’abitare nel Libro-Casa-Della-Vergogna. È stato piacevole e scomodo, esaltante e ansiogeno. Quando vivevamo nel Libro-Casa-Della-Vergogna, il nostro genere era:
ESTENUATƏ
Nella Grande-Biblioteca-Bagnata-Umida-Lubrificata ci sono una moltitudine di generi e si può anche scegliere di combinarli in un numero infinito di possibilità oppure semplicemente di trasformarli. Oggi viviamo nel Libro-Casa-Dei-Rifiuti e il nostro genere è:
SULL’ORLO DI UN AFFONDAMENTO IMMEDIATO E DEFINITIVO
La NotteGiorna si cala-leva sulla Grande-Biblioteca-Bagnata-Umida-Lubrificata, offrendoci la visione del suo paesaggio bagnato di sudore. Abbiamo secreto così tanti liquidi nelle ultime ore, leggendo tutti i racconti che avevamo scritto con tanta cura e fatica, che la Grande-Biblioteca-Bagnata-Umida-Lubrificata è ormai completamente fradiciə. Uscivano liquidi dalle nostre bocche sotterranee, schiuma dalle nostre fiche sbavanti, acqua dai nostri petti gocciolanti, lacrime dai nostri occhi vitrei. Se ci avventuriamo ad aprire un Libro, questo, ingozzato dei nostri stupori, dei nostri valori, delle nostre paure, gocciolante, sudato, trasudante, spettrale, apre lentamente la sua boccuccia come un cuore malato e ci rigurgita in faccia liquidi biancastri e un poco densi, penetrandoci con una sensazione inebriante di cui non vorremmo più liberarci. Ci ritroviamo così con le mutande tutte bagnate. Poi tutti devono togliersele e metterle da qualche altra parte. E allora, per un attimo, la Grande-Biblioteca-Bagnata-Umida-Lubrificata assomiglia a un grande paio di mutande un po’ sporche e terribilmente inzuppate. E a quel punto ci è impossibile pensare ad altro:
PENETRARE
E
FARSI PENETRARE
HAHHAHAHAH
ABBEVERARSI
E
FARSI ABBEVERARE
HOHOHOHOHHO
INZUPPARE
E
FARSI INZUPPARE
HIHIHIHIHIHIHIHIHIHIHI
AFFONDARE
E
FARSI AFFONDARE
HUHUHUHUHUHUU
E INFINE
FRACASSARSI
E
FARSI FRACASSARE
LOLOLOLOLOLOLOLOL
Decidiamo così di cominciare la grande danza dell’alto e del basso con grande serenità. Di buttarci con la testa davanti e poi con tutti i piedi dietro nella danza dei sopra e dei sotto. Di gettarci con disinvoltura e a occhi al 100% chiusi nel circo massimo. Di restarci a lungo a macerare, senza mai sapere chi sta giocando con chi, o chi sta giocando con cosa. Chi sta sopra e chi sta sotto. Ma sapendo sempre chi vuole cosa.
Seguono molti, moltissimi lunghi mesi di interminabile attesa. E quando finalmente partoriamo, dopo essere statə ingravidatə dai nostri strap-on, dai nostri grandi buchi escono dei Libri piccolissimi, affascinanti e sporchissimi, ricoperti di sangue. Ma qui non ci sono chirurghi o medici. Ognunə aiuta a tirare fuori i Libretti e tutto va per il meglio. Una volta usciti, portiamo in giro i nostri Libri nei passeggini. Sono come tesori preziosi. Li portiamo al parco e osserviamo dolcemente le frasi che vengono scritte con cura sulle pagine fino ad allora bianche. È vero che un po’ anche ci asciuga stare sedutə come unbranco di stronzə ad aspettare su una panchina. Per fortuna, nella Grande-Biblioteca- Bagnata-Umida-Lubrificata, quando si guarda l’orologio è sempre l’ora dell’aperitivo!
Pchhhhhhhssss.
Una bibitina alcolica fresca. Il liquido gassoso che si scioglie in gola e le bollicine che scoppiano a contatto con le nostre lingue morbide. Ci sembra di avere di nuovo un cuore da far lavorare. Ci sembra di avere di nuovo le ali.
Così è iniziata la nostra Grande-Biblioteca-Bagnata-Umida-Lubrificata, il nostro Archivio-Mondo, i nostri Libri-Casa. Una volta, prima di andare a letto, unə dellə residentə ci raccontò la nascita del nostro mondo tanto adorato, tratta dal Grande-Grasso-Libro-Umidiccio, in cui tuttə erano riuscitə a infilarsi.
E questa NASCITA è avvenuta la prima volta che una persona ha iniziato a partorire CENTINAIA, MIGLIAIA e MILIONI di LIBRI. Ancora libri. Sempre più LIBRI. Abbastanza libri da fare una CASA. Abbastanza libri da fare PALAZZI. Abbastanza libri da fare QUARTIERI. Abbastanza LIBRI da fare una CITTÀ. Abbastanza LIBRI da fare un MONDO. LIBRI e LIBRI uscivano da tutto il suo corpo, a non FINIRE. E tutto a un ritmo SFRENATO che nessuno poteva o voleva fermare, e di sicuro non voleva controllare. Dando vita a tutti questi LIBRI, all’AURORA della CLOACA MAXIMA, la persona stava dicendo:
Non potete più farci credere che tutti questi LIBRI non esistono. Smettetela di farci credere che i vostri LIBRI sono i nostri LIBRI. I nostri LIBRI non sono i vostri LIBRI. SMETTETELA di cercare di scrivere dentro il mio LIBRO. SMETTETELA. SMETTETELA. SMETTETELA. E SMETTETELA anche di farci credere che tuttə le STORIƏ che contengono non esistono. Queste STORIE esistono. Esistono, GUARDATE e GUARDATE ATTENTAMENTE, mi escono dal NASO, mi escono dalla BOCCA, mi escono dal CULO le STORIƏ per quanto sono state nascostə, eliminatə, cancellatə. Sono stanchə di stare RINCHIUSƏ nell’ARMADIO. Vogliono tirare fuori dal LEGNO tutti i LIBRI dei MONDI che possono esistere. I LIBRI dei desideri che possono VOLARE. I LIBRI dei dolori che possono EVAPORARE. I LIBRI dei piaceri che possono ESPANDERSI. I LIBRI dei corpi che vogliono e possono GRIDARE PER L’ETERNITÀ, imparare, dormire e amarsi sempre di più, e continuare a DISTRUGGERSI.
Allora, quando i LIBRI escono contemporaneamente dal GRANDE BOSCO e dall’ARMADIETTO,
ASCOLTATELI!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Traduzione di Veronica Pecile
The illustration below shows the front door of a church, which is located just around the corner from my office in Halle (Saale) in Germany. When I first came across the church, my attention was drawn to some graffiti that somebody had sprayed on the door saying: “God is dead.” This is reminiscent of Friedrich Nietzsche’s theology of the death of God. Next to it, the painter drew a symbol for anarchism. When I passed the church a couple of weeks later, somebody else had added a “not” to the sentence, turning it into “God is not dead”, and had painted a cross over the symbol for anarchism in golden paint. The underlying debate about the death or (non)existence of God, in this case publicly manifested on the front door of a deconsecrated church, has a long tradition in academia and beyond.
How far does it matter if God is imagined to be (not) dead? It matters, among other reasons, for how socio-cultural anthropologists have studied religious practices and beliefs.
According to different schools of thought in the anthropology of religion, believing in God has been understood in multiple ways. As a means of establishing social cohesion (Durkheim 1912). As a symbol through which meaning is communicated (Geertz 1966). As a product of ongoing discursive practices (Asad 1993). The different anthropological understandings of religion point to a paradigm shift in the philosophy of religion. A shift away from theistic definitions of God to a definition of God as something metaphysically, axiologically and soteriological “ultimate” (Schellenberg 2016).
In other words, most anthropological approaches to religious beliefs and practices share a perspective that has been termed “methodological atheism” (Berger 1967). From this perspective, religion is understood as an immanent human projection without a transcendent point of reference.
Methodological atheism, however, has been criticised on the grounds that it privileges a secular ontology and denounces religious interlocutors. Instead, a methodological agnosticism has been proposed (Porpora 2006). This means that the explanation of religious experiences is turned into an empirical question. Different explanations of supernatural experiences are juxtaposed “neutrally”. Taking near-death experiences as an example, a methodological agnostic perspective analyses them by putting psychological, medical, sociological and transcendent explanations next to each other, without prior judgement by the researcher about the truth-value of each explanation.
Although methodological agnosticism claims to be more neutral, it is itself based on the scientifically unprovable premise that different explanations are equally valid, which does not do justice to either atheist or to theistic beliefs.
Even though there is no explicit “methodological supernaturalist” approach in anthropology, some studies have dealt with (religious) beliefs as if they were true. These perspectives may be called methodological supernaturalism by way of analogy with the former methodological isms. One example is the ethnographic study by Islamic scholar Sarah Eltantawi on the introduction of Islamic criminal law in northern Nigeria. Eltantawi argues that northern Nigerians favoured the reintroduction of the most extreme form of Islamic criminal law in the early 2000s, with legal sanctions such as stoning or the amputation of body parts, because they hoped that Shari’ah, as perfect God-given law, would provide a justice that secular law failed to deliver. The emic belief in a God who takes action through divine Islamic law and creates justice is taken seriously from Eltantawi’s perspective.
The way in which religious beliefs and practices are explained by anthropologists of religion are therefore informed by a researcher’s methodological approach to it. On whether they look at religious realities as if God was (not) dead.
What people consider to be ultimate, however, seems to matter beyond the anthropology of religion. As a researcher in residence at the Istituto Svizzero in Rome in 2023/24, I am investigating Catholic canon law from a legal anthropological perspective. I am conducting participant observation at the canon law faculty of a pontifical university in Rome where canon lawyers are trained. On one occasion I discussed a lecture on the philosophy of law with a canon law student, who is a nun from Latin America. According to her, postmodern philosophical approaches to law lead people away from God because they confuse what is true. The nun looks at postmodern theories of philosophy from the implicit perspective of a methodological supernaturalism – as if God were not dead – and she evaluates the postmodern theories according to her perspective of what is ultimate. Therefore, she considers postmodern theories to be godforsaken and untrue.
Other people may take gender justice, social justice, ecological justice and so forth to be ultimate and see and evaluate every other phenomenon from this particular viewpoint.
What people believe to be ultimate matters for how they look at (religious or non-religious) phenomena in the anthropology of religion and beyond, and how they evaluate them. There is no impartial perspective.