20.12.2024

MEET THE FELLOWS – DOMENICO SINGHA PEDROLI (ROMA CALLING)

Domenico Singha Pedroli (1994) è un regista, artista e architetto con sede a Lugano, Parigi e Bangkok. Con un approccio multiculturale e multidisciplinare, le sue opere articolano narrazioni complesse che esplorano il tema delle tracce e dell’identità in tutta la loro mutevolezza. Formatosi in architettura all’USI e nelle arti visive a Le Fresnoy – Studio national ha sviluppato una sensibilità per la fotografia, il cinema, la videoarte e la VR. Il suo lavoro è stato recentemente esposto a Visions du Réel, Louvre-Lens, Bangkok, Pechino e Busan. A Roma svilupperà il progetto transdisciplinare Mythopoiesis che si propone di dare una lettura critica e contemporanea delle Metamorfosi di Ovidio, ampliando la riflessione sul potenziale della mitopoiesi come atto creativo, combinandolo con l’evoluzione dei luoghi dimenticati della città.

A quale progetto lavorerai durante la residenza?
Durante i dieci mesi di residenza, lavorerò principalmente sulla stesura di una sceneggiatura per un lungometraggio di finzione liberamente ispirato alle “Metamorfosi” d’Ovidio. Il poema, scritto duemila anni fa, concatena più di duecentocinquanta episodi mitologici. Roma presenta un’infinità di rappresentazioni legate a queste narrazioni, che sia attraverso dipinti, sculture, affreschi o architetture.

In che modo l’ambiente dell’Istituto Svizzero influenza la tua ricerca?
La calma di Villa Maraini è un dono molto prezioso per riflettere su numerose questioni, che siano di ordine filosofico o spirituale. In parallelo, lo scambio con altri fellows nonché le numerose attività dell’Istituto sono particolarmente stimolanti sul piano quotidiano.

Qual è l’oggetto più strano che tiene nel tuo spazio di lavoro?
Sicuramente la Rolleiflex, una macchina fotografica a pellicola che suscita sempre una certa curiosità nelle persone vista la sua doppia ottica. Ma, in termini di stranezza, il primato lo ha il mio portafogli a forma di conchiglia che ho comprato in Tailandia.

In che modo l’approccio transdisciplinare arricchisce la tua ricerca?
La cosa più bella è che ci stimola ad adattare costantemente il nostro linguaggio per comunicare la nostra esperienza o pratica rendendoci così più autoriflessivi. Ogni conversazione è un’opportunità per imparare, creare nuove connessioni e relativizzare quei limiti che ogni settore presenta.

Cosa influenza il tuo lavoro?
Se rifletto al mio processo creativo e le opere realizzate sino ad oggi c’è sicuramente una grande varietà di referenze o ispirazioni. Può essere l’esperienza di vita di qualcuno, un documento d’archivio, il titolo di un libro, la forma di una pianta o un gesto di tenerezza che vedo per strada. Non so mai da dove possa arrivare perciò devo cercare di essere ricettivo in ogni situazione, ascoltare bene. In questa eterogeneità il punto di partenza però è la mia identità multiculturale di svizzero e tailandese.
Ha qualche rituale/routine durante il lavoro?
Durante la mattina non accendo il cellulare e cerco di toccare il meno possibile il computer, concentrandomi al massimo sulla lettura e la scrittura a mano. Prima di pranzo colgo l’occasione di svolgere attività fisica in palestra. Nel pomeriggio mi concentro più su questioni di ordine amministrativo, d’archiviazione o ordine generale. Durante il fine settimana cerco di visitare i numerosi musei della città. Per me è davvero importante avere rigore nella routine perché mi permette di prendere correttamente il ritmo che ogni progetto richiede.
Che musica sta ascoltando attualmente?
Ascolto musica durante le sessioni in palestra. Trovo che la musica funky dona un bel ritmo alla corsa. In alternativa alla musica mi piacciono molto i suoni d’ambiente, come può essere una fontana, il passaggio dei pappagalli, delle persone che chiacchierano per strada, un cantiere.
Hai un posto preferito a Roma?
Villa Borghese mi incanta sempre, a partire dall’arrivo, da Via Veneto, in cui bisogna passare sotto le possenti mura aureliane. Poi ci accoglie il verde, i pini marittimi, le statue o il belvedere. Più ci si addentra però e più sembra diventare selvaggio, come se si fosse prossimi ad una foresta.

Qual è la cosa più inaspettata che ti è capitata durante la sua residenza?
Incrociare per caso la pluripremiata regista Jane Champion ai Musei Capitolini è stato sicuramente un momento che mi ha segnato la giornata. Mi aveva particolarmente incuriosito il fatto che stava leggendo un libro e prendeva appunti. Forse preparava il suo prossimo film?
Il futuro per te è… ?
Ho riflettuto molto su come rispondere a questa domanda ma purtroppo, di fronte alla realtà che viviamo, che sia in prima persona, attraverso la stampa o i social media, non è facile articolare un pensiero capace di cogliere in maniera precisa un’idea di futuro. Però mi è tornata in mente la celebre conclusione de “Le città invisbili” di Italo Calvino che, nonostante sia stata scritta nel 1972, resta tutt’ora appropriata e perlomeno “praticabile”

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.»

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