Il testo che segue è apparso nel contesto della mostra Poetry for Revolutions presso l’Istituto Svizzero (20.10.2023- 18.02.2024)
Ci è stato insegnato che interrompere chi parla è segno di maleducazione. Eppure, talvolta, interrompere sembra essere l’unico modo, soprattutto quando si ha a che fare con qualcuno che parla ininterrottamente e che, nel suo parlare, si arroga il diritto di definire, descrivere, categorizzare e determinare tutto il resto. Insomma, qualcuno che non lascia a chi è in ascolto la possibilità di ribattere, né di dirsi, pensarsi, significarsi e raccontarsi da sé, riducendo l’uditorio a un beneducato silenzio. Così mi figuro la condizione esistenziale in cui gran parte delle donne si trovava invischiata prima della rivoluzione simbolica che le vide protagoniste, insieme ad altri corpi dissidenti fino ad allora tacitati, nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (de Lauretis, 1990). Una rivoluzione innescata dall’iperbolica constatazione di esser state a guardare per 4000 anni e di aver visto, cioè, di averne abbastanza: constatazione da cui il Manifesto di Rivolta Femminile del 1970, tra gli altri, sembrerebbe prorompere (Rivolta Femminile 1970).
Proprio il manifesto fu una delle forme di rottura che vennero mobilitate in quegli anni per uscire dal silenzio, determinando un corto circuito nel regime patriarcale della dicibilità. All’interno di quest’ultimo, tali corpi sedevano composti, ma scomodamente, in quanto oggetti del discorso altrui o come portatori di esperienze indicibili (Muraro 1981; Dominijanni 2017). Il manifesto femminista, in particolare, diede voce a parte di quell’esperienza che fino ad allora se n’era stata lì muta nell’imitazione di modelli maschili o nell’aderenza a ruoli gregari ascritti, zittita dagli imperativi del conformismo sociale (Dominijanni 2017). Agevolò infatti la presa di parola che seguì e a sua volta indusse la presa di coscienza, determinato a contagiare chi vi entrava in contatto, provocandone la metamorfosi – che è innanzitutto processo di soggettivazione e quindi cambiamento sociale.
Nel caso dei manifesti femministi, non si tratta solo di prendere la parola, ma di alzare la voce, reclamando e asserendo con forza un riposizionamento radicale da oggetto del discorso altrui a soggetto del proprio. Si tratta di testi irriverenti, scomposti, maleducati appunto, che segnano l’emergere di una soggettività inedita e imprevista, la quale di colpo fa irruzione nella storia e comincia a significarsi autonomamente, interrompendo il monologo patriarcale (Rivolta Femminile 1970). Vale a dire, testi che accompagnano il manifestarsi di tale soggettività – come la parola “manifesto” stessa suggerisce – e producono una rottura di natura epistemologica e ideologica nel continuum del discorso della modernità occidentale. È quella “utopica manifestatività” immaginata da Anna Oberto nel Manifesto della Nuova Scrittura al Femminile (1975); o il verificarsi della “fenomenologia femminile” auspicata da Lonzi e Accardi ancor prima di mettersi a scrivere insieme a Banotti il primo Manifesto di Rivolta Femminile (Accardi & Lonzi 1966). Questo fenomeno straordinario, che è l’improvviso rivelarsi di un’assenza, il ritorno di un rimosso, un negativo che prende corpo, è tutto il contrario della fenomenologia classica, metonimicamente incarnata nella figura di Hegel su cui siamo invitate a sputare – per citare un altro importante testo-manifesto pubblicato da Lonzi negli stessi anni (Lonzi 1970).
E se la parola “manifestarsi” racchiude segretamente in sé la parola “festa,” evocando l’euforia e l’ebrezza che possono scaturire da un processo di soggettivazione in corso – penso, qui, alla famosa concezione di Lonzi del femminismo come la sua “festa” (Lonzi 1978a, 44) –, nella forma-manifesto il sentimento prevalente sembra essere un altro. È un sentimento di rabbia, dapprima muta e poi sempre più chiassosa, fragorosa, assordante. È la rabbia delle donne che insorgono, che sono nemesi, che sono rivolta, e che, tutte insieme o a una a una, si preparano a forzare il blocco (Lonzi 1978b, 42). Il loro parlare è mordace, abrasivo, incendiario. Interrompe il monologo, come dicevamo, ma non cerca dialogo, o almeno non all’interno degli schemi linguistici, comportamentali e relazionali a disposizione. Da cui il famoso “comunichiamo solo con donne,” scritto a lettere maiuscole come fosse gridato, su cui si chiude il già citato manifesto di Rivolta Femminile. Con questo grido è annunciata la scelta del separatismo – scelta che parrebbe essere condivisa dalle Nemesiache, almeno stando all’incipit del loro manifesto del 1970 (“la lotta delle donne deve essere fatta dalle donne e gli uomini non devono essere informati”), e forse un po’ anche da Anna Oberto, che nel suo manifesto parla di “liberazione dal linguaggio al maschile come liberazione femminile” (1975).
Ancora una volta, una parola di rottura, di rifiuto, che si vuole autonoma su tutti i livelli, a partire dal linguaggio stesso, per poi arrivare a politica organizzata e cultura istituzionalizzata – da cui la famosa “deculturazione” predicata da Lonzi. La ricerca di autonomia espressiva quanto politica – che costituisce il fondamento dell’impresa teorico-politica di Rivolta Femminile, così come di quella artistica delle Nemesiache o di Anna Oberto – è un tratto distintivo del processo di soggettivazione in corso. Quest’ultimo comporta liberazione da categorie prestabilite, disidentificazione da ruoli ascritti, presa di distanze rispetto a mandati comportamentali imposti (Boccia 2014; Zapperi 2017, 2020).
Per le più radicali, ciò significa rifiuto dell’identità stessa, nonché di qualsivoglia ideologia, femminismo incluso. Questo scarto inaspettato viene a cristallizzarsi in un altro significativo manifesto: Io dico io, scritto da Carla Lonzi nel 1977 e pubblicato nel 1978 da Rivolta Femminile, che lo rivendica come proprio secondo manifesto. Vi si legge: “quello che ho da dire lo dico da sola” (Lonzi 1978b, 8). Il soggetto parlante, da quel collettivo “noi” che caratterizza solitamente la retorica del manifesto, diventa “io”, segnalando un riposizionamento radicale. Si tratta del risultato di un doloroso ma intransigente processo di disidentificazione, appunto: un percorso solitario e incerto su strade non battute. In quanto tale, questo processo comporta dei rischi non trascurabili, quali la solitudine, l’isolamento, l’illeggibilità, la rimozione, la pazzia (Boccia 2014; Zapperi 2017). Ma anche delle occasioni d’oro, prima tra tutte quella di aprire il campo delle possibilità all’emergere di un soggetto politico nuovo e in continuo divenire.
La distanza storica ci consente di leggere questo ripensamento radicale come un sintomo del fatto che la dicitura “donne” che costella questi manifesti corrisponde a una categoria politica in fieri, che raccoglie in sé soggettività dissidenti in lotta per divincolarsi da un’identità ascritta – che poi è il significato della differenza sessuale secondo Lonzi. Ma soprattutto, tale repentino cambio di rotta mostra come le persone dietro ai manifesti che leggiamo possano avere ripensamenti, cambiare meravigliosamente idea.
Quest’ultima considerazione è da tener presente quando si leggono i manifesti in questione, che hanno valore di documenti storici, ma che, per la loro stessa natura, tendono a farcelo dimenticare. Il manifesto, infatti, è un testo scritto in un impeto di rabbia o slancio di indignazione, quando non se ne può davvero più. Ed è scritto per essere affisso, urlato, lanciato da una balconata o dal finestrino di un’automobile in corsa, oppure accartocciato intorno a un sanpietrino e scaraventato contro una vetrina. Deve infatti circolare rapidamente, di mano in mano, di bocca in bocca, mirando ad accendere, appassionare, mobilitare e istigare un cambiamento sociopolitico radicale e immediato. Le sue stesse modalità di diffusione non prevedono storicizzazione, né curatela: il manifesto non si pronostica materiale di studio per i posteri, volendosi anzi cannibalizzato, annichilito e rimpiazzato da nuovi manifesti, da nuovi pensieri altrettanto incendiari.
Per questo motivo, sebbene suonino risoluti e massimalisti, mi pare che la possibilità del ripensamento sia intrinseca al manifesto. Quando leggo i manifesti femministi degli anni Settanta, cerco sempre di tenere a mente che sono stati scritti da persone che avevano all’incirca la mia età e che, senza appigli né riferimenti fissi, erano alla ricerca di un linguaggio autonomo per esprimersi a partire dal loro punto di vista, parziale e fragile. Tale fragilità spesso si perde dietro al tono assertivo e autoritario che è tipico del manifesto – e che per alcune donne già rappresentava una conquista in sé, essendo stato loro storicamente negato in quanto antitetico all’ideale della femminilità. Persino le espressioni che oggi risultano problematiche, quanto meno dall’odierna prospettiva di un femminismo intersezionale cui io stessa mi sento di aderire, devono essere intese come il frutto degli sforzi e della lotta di chi era alla ricerca delle parole per esprimere un’esperienza, una soggettività e una sessualità rimosse e pertanto indicibili – una lotta dai risultati alterni, talvolta paradossali o contraddittori. La verità è che non esistevano verità: solo donne che pensavano e provavano insieme – quest’ultimo verbo da leggersi nella doppia accezione di esperire un sentimento, come la rabbia o l’euforia, e di tentare. Ed è proprio quello che facevano: procedevano a tentoni, come chi avanza nell’oscurità, e cioè come facciamo un po’ anche noi oggi. Perché così è la lotta: si procede per tentativi, con fiducia.