Il mio libro ha l’obiettivo di presentare e analizzare la personificazione degli Stati nei secoli che hanno preceduto la Rivoluzione francese. La figura della Marianne costituisce l’esempio più celebre di personificazione della Repubblica francese. In contrasto con questo esempio ben noto e studiato, poche sono le ricerche dedicate al periodo premoderno, su cui non esistono studi completi e comparativi. Tuttavia, la raffigurazione di Francia svolge un ruolo ovvio come precorritrice di Marianne, e la continuità è ancora più evidente nel caso di Britannia, effigiata sulle monete fin dal 1666 ai giorni nostri. La personificazione in testi e immagini rappresenta, per molte entità statali della prima età moderna, un elemento rivelatore della loro auto-rappresentazione e del loro sviluppo costituzionale. Ciò vale per Hollandia come per Polonia, Austria e Hispania, e anche per Germania con le sue figlie, come Bavaria, Borussia o Helvetia. La figura di Madre Svea e quella di Russia sono apparse nel momento in cui la corrispondente entità politica è stata accolta nella comunità degli Stati: così come oggi una bandiera e un inno nazionale sono indispensabili alla vita di un nuovo Stato, in passato la personificazione era il simbolo della sua sovranità.
In che modo tutto ciò ha a che fare con l’Italia e Roma? Pur non costituendo un’entità politica unitaria fino all’esito delle battaglie risorgimentali, in quanto entità culturale e geografica l’Italia ha avuto a lungo una sua diffusa personificazione. Era spesso rappresentata nell’atto di compiangere il suo destino, con riferimento all’inizio delle Lamentazioni bibliche: un tempo aveva governato il mondo, ed ora era ridotta al ruolo di pedina nelle mani di potenze straniere.
Sebbene l’Italia non fosse un’entità politica unitaria, nella penisola esistevano grandi potenze politiche che diedero vita a significative personificazioni delle relative comunità. Venetia, in particolare, costituì un modello molto influente, valido persino nell’Europa settentrionale e orientale. La si vede raffigurata nella sala più importante del Palazzo Ducale, sede dell’autorità della Repubblica, nell’atto di regnare su terre e su mari. Intorno al 1584, Jacopo Tintoretto, Palma il Giovane e Veronese la immortalarono nei dipinti del soffitto centrale della Sala del Maggior Consiglio.
E che dire di Roma? A differenza di Venezia, la città non costituiva uno Stato. Era però la sede di un monarca universale, il papa, e dei suoi possedimenti secolari: lo Stato Pontificio. Anche il secondo monarca universale, l’imperatore del Sacro Romano Impero della Nazione Germanica, recava nel titolo un riferimento a Roma. L’espressione “Città Eterna” aveva un significato storico-salvifico: nell’interpretazione medievale del passo del profeta Daniele (2,37-41), l’Impero Romano era generalmente considerato l’ultimo impero prima del Giudizio Universale. Questo modello era radicato anche nell’antichità pagana: Roma era la città degli imperatori, ma in epoca repubblicana aveva già sottomesso gran parte del mondo allora conosciuto. Molto prima della nascita di Cristo, la res publica romana rappresentava sé stessa come una divinità trionfante, a cui una piccola raffigurazione della dea Victoria porge una corona d’alloro.
L’immagine di Roma era a sua volta ripresa e ispirata da quella di Pallade Atena. Questa dea, corrispondente alla Minerva romana, viene raffigurata in trono con elmo e armi e ha rappresentato un modello estremamente influente per le singole personificazioni nazionali, in particolare per quella britannica. Tuttavia, Britannia combinava il modello romano di ascendenza greca con un’altra raffigurazione della Britannia antica, ripresa da William Camden intorno al 1600 (ill.). Questa figura si trovava sul rovescio delle monete con busti imperiali e non era raro che fosse raffigurata in posizione sottomessa, ai piedi del suo sovrano o nell’atto di rendergli omaggio. Britannia e altre province romane documentavano così la dipendenza dei territori, rappresentati in forma femminile, dal loro forte protettore maschile.
Tuttavia, non si evidenzia alcuna continuità nell’uso delle allegorie delle province tra l’antichità e il primo periodo moderno. Il ricorso all’iconografia delle monete antiche avvenne solo nel Rinascimento, che in questo contesto merita pienamente il suo nome. Una condizione indispensabile per attingere a quel patrimonio è costituita da un’altra, fondamentale idea proveniente dal periodo antico, ma stavolta dall’ambito cristiano. Nel testo attribuito a San Paolo della Lettera agli Efesini 5:21-32, l’autore proclama che Cristo in quanto capo e la Chiesa in quanto suo corpo sono destinati a diventare una cosa sola, proprio come l’uomo e la donna nel matrimonio. L’idea del matrimonio mistico ebbe un impatto molto forte nel Medioevo ecclesiastico e secolare. Al momento della sua elezione, un vescovo non si univa forse alla sua diocesi in un matrimonio indissolubile? Lo stesso non valeva per il papa e la chiesa universale? E a proposito dell’altro monarca universale: l’imperatore non era forse lo sposo della sua res publica, l’impero, come affermava il giurista Cino da Pistoia intorno al 1300? Per poi lamentare, in veste di poeta, che la “gente” era rimasta vedova alla morte dell’imperatore Enrico VII, avvenuta nel 1313.
Siamo quindi ai tempi dell’amico di Cino, Dante, ed esattamente nell’Italia centrale, dove la ghibellina Pisa, favorevole all’imperatore, giocò un ruolo importante nella diffusione di questa metafora matrimoniale. In che modo tutto questo riguarda anche Roma? La città continuò a rappresentare sia il modello dell’impero eterno, che quello della sua capitale: non è un caso che, come altri pretendenti medievali, Pisa si considerasse una seconda Roma. Le stesse costituzioni dei comuni dell’Italia centrale, con i loro consoli e senatori, si richiamavano al modello romano. Tuttavia, nel Medioevo apparve un nuovo attore politico, ovvero il sovrano della città: che poteva essere l’imperatore stesso, ma altrettanto spesso un vescovo e, nei comuni, un podestà laico eletto. Nella stessa Roma convivevano tutte e tre le varianti: l’imperatore come capo dell’impero (romano), il papa come capo della Chiesa (romana), e il podestà, come per esempio Brancaleone degli Andalò (1220-1258), che di fatto fu il primo a far immortalare la personificazione di Roma sul metallo delle monete (fig.).
In questo contesto, la res publica personificata compare in veste di accusatrice di coloro che la maltrattano o la abbandonano al suo destino. Dante immagina Ytalia misera che saluta il suo compagno Enrico VII, in procinto di attraversare le Alpi per sposarla. Poco tempo dopo, alla morte di Enrico, Dante cita il libro delle Lamentazioni: “Quomodo sola sedet civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium”: la grande città di Roma è sprofondata come una vedova cieca, perché le mancano entrambi gli occhi. Con le sue parole, Dante si riferisce all’imperatore e al papa, ai quali Petrarca rivolge la medesima accusa, quella di aver abbandonato la loro sposa romana e di essersi stabiliti a nord delle Alpi: l’imperatore Carlo IV a Praga e i papi ad Avignone dal 1309 al 1377. In questo contesto Roma compare in diverse poesie, in Petrarca e nei suoi successori, tra cui Fazio degli Alberti.
Petrarca presenta la città come una vecchia matrona dai capelli aggrovigliati e ingrigiti, con un mantello strappato e il volto pallido, e ne elenca le glorie perdute: essa infatti è stata capo del mondo, regina delle città, sede dell’impero, rocca della fede cattolica, fonte di tutti le azioni degne di memoria (“Roma vero, mundi caput, urbium regina, sedes imperii, arx fidei catholice, fons omnium memorabilium exemplorum”). Roma invoca il suo sposo, Italia il suo salvatore. Ma l’imperatore teme il santo bacio della sua sposa e il bel volto di Italia – come se ci fosse qualcosa di più bello al mondo! Nel lamento di Petrarca, Roma come comunità politica e l’Italia come entità geografica tendono a identificarsi, aprendo così la strada alla personificazione politica della prima età moderna.